Una singolare protesta girgentina

Nell’immaginario collettivo il ferimento di Garibaldi in Aspromonte è una notizia sedimentata, quasi che possa essere considerato normale il fatto che uno dei maggiori artefici dell’Italia unita sia stato preso a schioppettate proprio dall’esercito di quell’Italia che aveva contribuito a costruire.
In realtà la faccenda, che trova una sua logica spiegazione nel complesso sistema di alleanze e giochi politici dell’Italia post unitaria, è ricca di risvolti inediti o poco noti, i quali per opportunità del momento o per quietare gli animi sono via via caduti nel dimenticatoio fino a essere quasi cancellati dalla storia.
Notizie e fatti che andremo a rispolverare, ma per farlo occorre necessariamente fare un passo indietro ricostruendo alcuni avvenimenti di Sicilia dalla fine di giugno al 26 ottobre del 1862.
Queste note vogliono essere una semplice chiacchierata che, con qualche licenza, ci permetterà di capire che non tutto è scritto sui libri di storia e spesso quel che ci si trova rappresenta solo una parte della verità.
A quasi due anni dall’Unità, al crepuscolo di un caldo giugno del 1862, Garibaldi partito da Caprera rimette piede a Palermo per consolidare la base del suo partito – garibaldino, repubblicano o democratico che dir si voglia – che contava moltissime adesioni nell’Isola, ma anche, e forse soprattutto, per reclutare un nuovo esercito tale da consentirgli di prendere Roma e realizzare finalmente il sogno di un’Italia unita con Roma capitale.
In poche settimane il Generale radunò un consistente numero di volontari decisi a seguirlo nell’impresa. L’entusiasmo dei siciliani e dei fedelissimi venuti dal nord, infiammati da un’ infuocata filippica del Nizzardo contro Napoleone III e tenuta a Palermo il 15 luglio, era alle stelle.
Non dimentichiamo inoltre che in quel periodo in Sicilia c’era un diffuso malcontento nascente dalla nuova legge sulla leva obbligatoria: molti giovani richiamati dal neonato Esercito Italiano preferivano darsi alla macchia piuttosto che adempiere agli obblighi di leva. Troppi i siciliani scontenti per quella legge che sottraeva braccia vigorose alle colture e quindi sostegno alle famiglie più bisognose.
Lo scontento era accentuato dal ricordo che sotto il dominio borbonico gli isolani erano esentati dal servizio militare.
I siculi interpretavano questa esenzione come un privilegio, un segno di benevolenza della maestà napoletana, mentre in realtà i Borboni li dispensavano dal servizio poiché erano semplicemente diffidenti dei reparti siciliani armati …
Pertanto molti renitenti che infestavano le campagne in quell’estate del ‘62 furono ben felici di aggregarsi ai garibaldini “duri e puri”. Per non parlare dei numerosissimi adolescenti che scappavano dalle case facendo carte false per seguire Garibaldi nell’impresa. Per la verità, le disposizioni volte a impedire l’arruolamento dei minori erano abbastanza rigide, ma l’entusiasmo giovanile ebbe la meglio e così centinaia di ragazzi e ragazzini furono accolti con l’incarico di cucinieri, trombettieri, portaordini o altro.
Insomma in quell’estate del ‘62 la Sicilia era una polveriera.
Tuttavia il reclutamento dei volontari avvenne alla luce del sole e le nuove compagnie votate all’impresa furono alloggiate anche negli edifici pubblici, con il beneplacito dell’Esercito Italiano, che tutte le volte che intimava l’alt a un reparto in marcia verso il centro di raccolta di Catania, immediatamente cedeva il passo e i garibaldini proseguivano al grido di : “O Roma o morte!”.
Mentre fervevano i preparativi, il 13 agosto 1862, al Molo di Girgenti – questo era il toponimo dove sarebbe sorta la futura Porto Empedocle – sbarcò dal vapore, e mise piede per la prima volta nell’Isola, il nuovo prefetto della provincia, il toscano cavalier Ernesto Falconcini, che non ebbe manco il tempo di veder sbarcare il suo bagaglio che la ribollente terra gli diede un vivace benvenuto con una prolungata scossa di terremoto.
L’evento tellurico non fece vittime e provocò si e no la caduta di qualche calcinaccio, ma ebbe il prevedibile effetto collaterale di produrre un fuggifuggi generale, non solo della banda musicale preposta a dare il benvenuto al neoprefetto ma anche di tutte le autorità civili e militari venute ad accoglierlo.
Così il povero Falconcini si ritrovò tutto solo e sconsolato sotto un implacabile sole agostano; un segno premonitore? Vedremo…
Neanche otto giorni dopo l’arrivo di Falconcini a Girgenti, il 21 agosto a Palermo scoppiarono gravi disordini con incendi e sparatorie, tanto che fu necessario proclamare lo stato d’assedio per mantenere una parvenza di ordine in Città.
Il neo prefetto di Girgenti era sempre più preoccupato: anche la provincia da lui gestita cominciava fermentare.
Stando così le cose, il 26 agosto il comandante della squadra navale preposta alla sorveglianza del tratto di mare tra Catania e Reggio Calabria con l’ordine palese di ostacolare l’impresa di Garibaldi, avrebbe ordinato ai suoi sottoposti di “guardare da un’altra parte” mentre i garibaldini arrembavano due piroscafi nella rada di Catania; le due navi sarebbero servite per trasportare i volontari in Calabria.
Su questa ipotesi un dubbio ancora oggi induce qualche cultore di storia a supporre che esistesse una tacita intesa tra Garibaldi e il re Vittorio Emanuele II, ma in merito non esiste il suffragio di una prova.
Finalmente i garibaldini toccarono la terra nei pressi di Melito, e dopo estenuanti marce forzate per sfuggire all’inseguimento – vero o supposto – dell’esercito regolare e dopo tanta fame (tanta da costringere i volontari a depredare un intero campo di patate per avere di che sfamarsi) si arrivò alla fatidica giornata del 29 agosto.
Quel giorno in Aspromonte si trovarono schierati da un lato un nutrito contingente italiano comandato dal colonnello Emilio Pallavicini e dall’altro
i volontari garibaldini.
Nel pomeriggio iniziò una vivace scaramuccia, interrotta per parte sua da Garibaldi che ordinò ai suoi di non tirare ai fratelli italiani dello schieramento opposto.
Tuttavia due schioppettate raggiunsero il Generale alla natica sinistra e al malleolo destro. Polemisti e detrattori attribuirono la ferita alla natica al fatto che Garibaldi aveva volto le terga davanti agli avversari, i sostenitori diedero risalto solo alla ferita al malleolo. Ragionando sulla dinamica dei fatti, probabilmente la ferita al malleolo costrinse il Generale a una rotazione su se stesso, movimento che potrebbe averlo portato in tal modo a dare le spalle.
Comunque il fuoco cessò in pochi minuti e nell’immediatezza del momento Garibaldi venne adagiato dai suoi su una barella improvvisata e subito posto in stato d’arresto. Qualche giorno dopo il Generale venne imbarcato sul Duca di Genova per essere internato nel penitenziario del Varignano presso La Spezia.
Ma, facciamo un passo indietro: mentre a Garibaldi venivano praticate le prime cure sul posto, entrò in scena un giovanissimo e svelto volontario, Salvatore Indelicato detto “pispidedda”, cioè piccolino, un giovanottino di 14 anni, uno dei 240 giovanissimi accorsi alla chiamata.
Il volontario, originario da un paese della provincia di Girgenti, era già stato trombettiere di Bixio.
Salvatore Indelicato con prontezza raccolse lo stivale sfilato dalla gamba ferita di Garibaldi, lo imboscò nel suo tascapane e discretamente approfittando della confusione sgusciò per guadagnare la via del rientro.
Il ragazzo aveva combattuto già due anni prima, all’età di 12 anni, a Milazzo e poi al Volturno, quindi a 14 anni era ormai divenuto un accorto veterano a tutti gli effetti.
Nel 1911 ricorrendo 50° anniversario dell’Unità, Salvatore Indelicato donerà lo stivale all’appena inaugurato Vittoriano aggiungendo: la sua camicia rossa e una foto che lo ritraeva ormai attempato in tenuta garibaldina.
I cimeli sono oggi allocati al Museo del Risorgimento presso il Vittoriano, nello spazio consacrato ai fatti d’Aspromonte. Chiusa la parentesi.
Due giorno dopo la scaramuccia, il 31 agosto, il generale Cialdini emanò un editto che intimava alle sue truppe di trattare i garibaldini da briganti. Il che significava la fucilazione immediata in caso di cattura.
I reduci che erano riusciti a evitare l’arresto e a fuggire, si intruppano in una colonna al comando del maggiore Trasselli; marciando di notte per non essere sorpresi dai regolari, e a tappe forzate cercarono di rientrare nei loro paesi.
Un gruppetto di questi, sette per la precisione, giunto a Fantina, nei pressi di Novara di Sicilia, con l’intento di procurarsi qualcosa da mangiare o forse per consegnarsi al Sindaco del luogo onde non incorrere nei rigori militari , venne sorpreso da un reparto italiano comandato dal capitano Giuseppe De Villata che li indusse a consegnare le armi dietro formale promessa d’incolumità, i sette giovani tra i quali il più anziano aveva appena 21 anni, fiduciosi si misero nelle mani dell’ufficiale italiano, il quale nel più assoluto disprezzo di ogni regola di guerra, dell’onore e della parola data, li fece passare immediatamente per le armi e senza neppure avere consentito che i disgraziati scrivessero due righe di commiato alle famiglie.
La notizia dell’eccidio si sparse di bocca in bocca e contribuì a esacerbare l’animo dei siciliani. Per il suo gesto vigliacco e per altre benemerenze simili, il capitano De Villata ricevette promozioni, encomi e riconoscimenti.
L’unico a chiedergli conto del suo infame comportamento fu il patriota e giornalista trapanese Salvatore Malato, il quale incontratolo qualche tempo dopo a Trapani trovò il modo per sfidarlo a duello e ne ebbe soddisfazione.
A Salvatore Malato oggi è dedicata una delle vie del centro di Trapani.
Ma ancor più ingeneroso di De Villata fu il commento serpeggiante che la causa della brutalità fosse la circostanza che tra i regolari italiani ci fossero ex ufficiali e soldati borbonici, i quali avrebbero profittato delle circostanze per trattare i garibaldini come nemici.
Di quei giorni è il grido: “Al sessanta tu ed al sessantadue noi!”.
Una ventina di giorni dopo i fatti, la notizia si diffuse anche in provincia di Girgenti, provocando manifestazioni di sdegno e di protesta a Racalmuto e a Canicattì, il neoprefetto Falconcini dispose 463 arresti ingiustificati, infatti le proteste si erano limitate a una sfilata della popolazione composta in silenzio e vestita a lutto.
Gli arrestati furono rimessi in libertà dopo pochi giorni, ma lo scandalo fu enorme, grazie alle proteste e agli energici interventi in Parlamento da parte dei deputati siciliani: La Porta, Crispi e D’Ondes Reggio, oltre che a una vivace campagna stampa organizzata dal patriota e giornalista canicattinese Vincenzo Macaluso.
Nelle settimane a seguire, il rientro dei reduci a Girgenti diventò sempre più consistente e la gravità degli avvenimenti divenne di dominio pubblico.
Tra i reduci, un giovane avvocato, un luogotenente di Garibaldi: Rocco Ricci Gramitto, propose di organizzare una manifestazione di dissenso in Città.
Nel frattempo, con un gesto di coraggiosa e inaudita protesta, ben 43 dipendenti statali si dimisero dall’incarico, mettendo in crisi buona parte degli uffici pubblici girgentini.
Rocco Ricci Gramitto ricordò che lo stivale insanguinato era custodito in un paese vicino in casa del giovane garibaldino che l’aveva raccolto, mentre un pittore-fotografo del posto, Salvatore Galleca, aveva realizzato un ritratto allegorico di Garibaldi che ne illustrava le gesta.
A questo punto, recuperati quadro e stivale, venne indetta una manifestazione di protesta, durante la quale la popolazione in silenzio composto e listata a lutto avrebbe sfilato per la Via Atenea al seguito dei due cimeli.
Il 26 ottobre del ‘62, a quella singolare protesta che vide partecipe disciplinata tutta la cittadinanza girgentina, prese parte anche Caterina, sorella di Rocco Ricci Gramitto, la quale in quell’occasione conobbe un reduce, un caporale amico del fratello, tale Stefano Pirandello.
La manifestazione si concluse senza incidenti e senza arresti con buona pace del prefetto Falconcini che stavolta non commise alcun arbitrio.
Caterina e Stefano si piacquero, si frequentarono, si fidanzarono e qualche tempo dopo si sposarono.
Da quella unione il 28 giugno del ‘67 nacque un pargoletto al quale fu imposto un nome che sarebbe diventato famoso: Luigi.
Proprio lui, Luigi Pirandello…Così è se vi pare!

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